(S. Bonifacio 25 novembre 1897 – S. Bonifacio 2 agosto 1990)
POETESSA
Colpita dalla poliomielite nella prima infanzia e troppo presto orfana dei genitori, già da adolescente, in una situazione di dura indigenza, dovette provvedere anche ai fratelli minori. Autodidatta, quindi aliena da mode e convinzioni letterarie, se mai con qualche eco leopardiana e pascoliana, espresse in semplicità e chiarezza il suo afflato, forse anche sfogo lirico, spinta da una necessità di reagire alla fatica di vivere. Condusse, infatti, una lunga e tribolata esistenza, rallegrata soprattutto dalle soddisfazioni della sua arte. Si occupò di poesia da sempre, inanellando versi in lingua (tredici raccolte dal 1922, edite a Roma, Milano, Padova, Vicenza e S. Bonifacio) pregni di una pensosa sofferenza, interrogandosi sui perché dell’umano dolore e sfuggendo ad alchimie consolatorie. Si chinò sul mistero della vita e, con un misto di ingenuo candore e saputa esperienza, ne trasse una lucida filosofia, aliena da pietismi e mistificazioni sentimentali. Esaminati gli inizi, sempre luminosi, dal cammino dell’esistenza, le mete proposte, gli ideali che balenano splendidi nella stagione primaverile, ne venne a considerare i crolli, gli affanni del corpo e della mente, le delusioni che ne fecero il deserto intorno, e soprattutto di dentro. Fu, dunque, in questo tragico vuoto, dove ebbe la percezione d’essere sommersa dell’inclemenza del tirannico tempo e dove si sentì agnello sacrificale, che si mosse la ricerca tormentosa della poetessa. Che ebbe il dolente dono di poter auscultare, con infinito e pacato supplizio, se stessa e un mondo circostante in frenetica e inconscia dissoluzione. La capacità di vedere oltre le apparenze gradevoli, od anche splendide delle cose, che a volte abbagliano come la primavera, fu, per lei, con più profondo, sottile e crudele patire, attraverso il quale quasi mettersi in comunicazione pensosa con le scaturigini prima del dolore universale, carpito con una sintonia che andò in finezza a toccarne la corde più scoperte e a misurarsi con le sue larve e i suoi spettri poetici. Trovò una qualche via di fuga, disperata e accorata, nella fede e nella morte e giunse, finalmente, a placarsi in un’accettazione cristiana del dolore. Non per niente un libro di liriche (’67) fu dedicato “a chi ha tanto amato e sofferto!” Disse precedentemente: “Tanta è la pena della vita mia/ che mi consolo dessere mortale…” ; ed anche: “Mi si spezzò nel cuore la primavera/ e saffogò nel pianto”. Fu significativo, quindi, che l’ultima raccolta (’86) portasse questo titolo: Io mi chiamo speranza.
[Tratto da: Dizionario Biografico dei Veronesi. Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona. Verona 2006. Pagg. 218]. (G.C.)